A cura di Anna Caterina Bellati
Vento Fermo
La filosofia analitica, durante gli anni Cinquanta del secolo scorso, con Wittgenstein Waismann e Urmson, i tre pilastri della Logica moderna, indagava la natura delle proposizioni metafisiche lavorando sulle strutture con cui vediamo il mondo. Contrapponendosi al tentativo post-kantiano di spiegazione dell’essere basato su una struttura immutabile del ragionamento umano, la metafisica descrittiva collegava dunque le strutture della ragione alla Fenomenolgia. Io penso e vivo nell’accadere delle cose.
VENTO FERMO propone al visitatore un viaggio pittorico che proprio da quel ribaltamento prende le mosse. L’osservazione del mondo e l’esperienza costruiscono il pensiero, chiamando in causa la categoria del tempo dentro un silenzio quasi assoluto.
Ciro Palumbo sposa la maniera di De Chirico nel modo statico, preciso e nitido con cui i soggetti vengono rappresentati, calandoli in un luogo sovra mondano che induce l’osservatore a superare la pura e semplice raffigurazione estetica. I lavori del pittore torinese, una volta passati al setaccio del disegno, nascono al mondo in ogni loro dettaglio attraverso lo studio meticoloso dell’ingombro geometrico che ogni oggetto possiede in sé. La composizione, sempre onirica e capace di pescare dalla cultura classica e dall’indagine psicologica numerosi topos diventati totemici, si avvale inoltre di due personali ambizioni dell’autore, una che rimanda all’infanzia e alla sua poetica follia; l’altra che guarda con interesse allo Spazio inteso come respiro dell’Universo. Così sull’impalcatura metafisica Palumbo può collocare giocattoli o statue antiche, barche dotate di occhi o animali da salvare partiti su isole volanti per una Nebulosa ancora da scoprirsi.
Ricordi e conoscenza. Azzardi e scampoli di realtà. Sogni e nuove traiettorie del pensiero, dove l’uomo non ha diritto di abitare.
Nella Storia dell’Arte molti pittori hanno assegnato alle architetture dell’abitare il ruolo di crogiolo di sentimenti, passioni, abitudini salvifiche che raccontano le nostre necessità quotidiane.
Marco Martelli propone una letturadella realtà fedele ai particolari più minuti del soggetto dipinto, impiegando una tecnica di perfezione rarefatta che tuttavia non va confusa con la qualità fotografica. Quelli che potrebbero sembrare scatti accurati di palazzi, giardini o antiche case sono invece il risultato di un’abilità pittorica che l’artista fiorentino coltiva fin da giovanissimo. I luoghi architettonici ritratti prendono vita attraverso una studiata profondità di campo che si serve di infinitesimali transizioni di colore, per restituire intatta la prospettiva, arrivando a sfiorare l’iperrealismo. Le architetture narrano storie di vita quotidiana dove si sono consumate vite e passioni, storie e speranze. I muri di queste case sono inondati dal sole che in molte estati li hanno stinti e consumati, mentre le piogge e il freddo invernali li hanno dilavati e resi fragili. Ma la loro sontuosa bellezza ha resistito alla corrosione. Immobili icone dell’abitare, vivono in una finestra temporale della memoria dove non un alito di vento passa a visitare porte e finestre, panni stesi o verzure di giardini. In una calma serafica al di fuori delle rotte umane.
Carlo Cane è sempre stato affascinato dalle architetture. All’inizio erano i grattacieli. Volumetrie immense con finestre tutte uguali erette all’infinito contro il cielo. Un presente storico che ragionava sull’alienazione e la solitudine, quella dura e sedimentata nella vita cinetica di una metropoli. Quindi l’artista di Alessandria si è lasciato convincere dalla malinconia entrando nella dimensione del tempo già passato. Sono nate così le abitazioni familiari, le baite, le ville di campagna abbandonate e silenziose, situate in una dimensione surreale. Veleggiano in una quinta stagione dove se c’è la neve a coprire alberi nudi dei dintorni non si sente freddo, se la primavera ha riempito di gemme le piante del giardino non ne percepisci l’odore, se il sole estivo ha fatto rinverdire la campagna, quel sole non scalda. Sospese con tutte le fondamenta in uno spazio reinventato, custodiscono per sempre tutto ciò che hanno visto passare. Sono l’album dei ricordi di intere generazioni e si sfaldano piano piano un giorno alla volta, fino a essere sul punto di scomparire. Cane con questa ricerca sfiora il nichilismo romantico assegnando alle case il compito della conservazione. Ferme per non perdere una sola traccia, restano impavide controvento. Poi, assorbite nella Natura che le circonda saranno altrove, diventando immortali.
Filippo Negroni alle case ha dedicato un intero ciclo di lavori.
Rasserenanti e vigili si stagliano su fondali di bruni e crema gessosi e sono le assolute protagoniste del dipinto. In comune coltivano il compito di salvaguardare le singole persone. Si tratti di un’abbazia a Cuba o del Duomo che custodisce opere del Correggio a Parma, simbolo di devozione e richieste a Dio; o di fabbriche nei pressi del Po in cui consumare le giornate nel lavoro; o del luogo dove vivono i nostri amici e ci si va per trascorrere insieme del tempo prezioso; o sia infine la propria casa, che è poi La casa di Emma, il cane con il quale hai trascorso i quindici anni della sua lunga vita, l’artista emiliano compone un mondo di solide presenze. L’osservatore entra nei dipinti attraverso la linea obbligata della base dell’opera, e subito loro crescono lì, con le finestre aperte come occhi e le porte disposte ad accoglierti. Mentre la tavolozza di pochi colori, il bianco e il nero per definirle graficamente, con qua e là quadrati di luce gialla quasi lampade sempre accese, testimonia un’armonia profonda dove tutto è fermo e immutabile.
Paesaggi come visioni di un antico futuro. Alberto Bortoluzzi scrive una nuova regola nella percezione del mondo. Noi non ci siamo più.
Il pittore padovano guarda alla Natura con disincanto inquieto e più che la narrazione di un luogo, i suoi lavori sembrano documentare tutto quello che la Terra ha perduto. Ciò che di per sé sarebbe “organico”, una pianura coltivata, una collina fresca d’erba chiara, una roccia bruna al sole autunnale, diventa “inorganico”. Questo giovane artista trasforma l’esistente in un fondale in cui il tema non è più la riconoscibilità del soggetto, una strada che conduce lontano, un lago, una sfaldatura sulla costola di una montagna, ma la sua valenza in termini di tonalità e di luce. Il mondo torna all’origine o forse è già come lo si immagina dopo un’apocalisse strutturale. Solo il gesto pittorico resta “carne che vive”. La tavolozza impiega colori puri facendoli incontrare ai margini delle losanghe che compongono l’insieme. Spatolate larghe a preparare l’asfalto su cui ricostruire l’esistente e poi pennelli più fini a delimitare un’idea di vegetazione o di laguna o di cielo. Si avverte qualcosa di segreto e misterioso in queste vaste prospettive dove lo sguardo si perde. Bortoluzzi scavando la realtà dietro le cose cerca la loro sostanza primigenia.
Vento fermo
Anna Caterina Bellati
Venezia, Agosto 2022
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